1989 dicembre 6 Se quel rancore

1989 dicembre 6 – Se quel rancore
Un anno fa un giornalista dell’Unità – organo del Pci – chiese ad Alexander Dubcek se era possibile
rimarginare la ferita aperta nel 1968 dall’intervento dei carri armati sovietici e di alcuni Paesi del patto
di Varsavia a Praga. Il leader di quella abortita primavera rispose che era possibile solo a una
condizione: che la sostanza degli eventi non venisse coperta di «spazi bianchi». Non si può
«imbiancare» la storia, ribadì Dubcek. Imbiancare la storia non serve né a Praga, né altrove. Ed è
questo anche il problema del partito comunista italiano. Se si rinnova, è perché era vecchio. Se si
rifonda, perché vecchissimo. Di tanto in tanto, un aggiustamento di rotta, il riconoscimento di un
qualche «errore», la proclamazione di uno «strappo»: mai nemmeno il refolo di un vento che
anticipasse senza mezze misure la bufera dell’Est. Poteva essere contemporaneamente leninista o
socialdemocratico, neo-atlantista o neutralista, consociativo o alternativo negli schieramenti,
opportunista o «diverso» nel gioco della politica. Insieme, tutto e il contrario. Con Occhetto, è la prima
volta che il Pci smette di fare l’imbianchino di se stesso. Prende le cosa come stanno e, più che di
ridefinire il passato, tenta di liberarsene. Il che dimostra quanto sia stato provvidenziale, in anni anche
recenti, rifiutare cambiali in bianco a un partito ancora incapace di tagliare i ponti e di far seguire scelte
concrete a mere enunciazioni. Questo Pci oggi in grado di contarsi con un sì o un no all’auto-riforma, è
figlio di molte spinte, compreso dunque lo scetticismo di chi, in nome dei fatti non dei pregiudizi, ha a
lungo insistito perché la piena legittimazione democratica dei comunisti si fondasse sulla chiarezza non
sull’ambiguità, sulla realtà non sulle mozioni, sui contenuti non sulla verniciatura. Se questa nostra
democrazia non avesse incalzato da vicino il Pci, nemmeno l’effetto Gorbaciov sarebbe da solo bastato
a radicalizzare il ripensamento del più forte partito comunista d’Occidente. Ciò va ricordato perché
altrimenti si rischia di non capire né la natura né l’entità delle resistenze alla proposta di Occhetto. Il
quale ha intuito una verità a questo punto elementare: che soltanto l’inversione di rotta può salvare il
viaggio. La fedeltà a un passato sbagliato non è una virtù ma la perpetuazione della sordità al futuro (la
buona fede e i tormenti della coscienza, per quanto nobili, qui non sono in discussione e non fanno
politica). Occhetto propone l’eutanasia del Pci, come premessa della ri-nascita dentro una sinistra senza
miti. È un progetto anche ingrato, ma chi vi si oppone non ha progetto se non la sopravvivenza del Pci
per accanimento terapeutico. I conservatori del Pci sono i migliori garanti del suo declino come forza
d’opposizione ben recintata, senza storia e senza ruolo in una democrazia matura. Con tanti
ringraziamenti da parte di quanti, e non sono pochi, hanno ancora molto da guadagnare dal
congelamento a oltranza del potere. Il pericolo per Occhetto è anche un altro. Che, lavorato ai fianchi
da «meccanismi e metodi» del congresso straordinario, ceda alla tentazione di barattare il dissenso
interno con una linea anti-socialista, cioè di far tacere la resistenza alla svolta in cambio di una
rancorosa polemica esterna. In questo caso, Occhetto passerebbe alla storia per essere incredibilmente
riuscito a cancellare in un sol colpo tanto il passato del Pci quanto un progetto di nuova sinistra e di
alternanza di governo. Occhetto ha due avversari: lo zoccolo duro del Pci e la doppiezza nel nome
dell’unità di partito. Può perdere la segreteria o la credibilità: gli conviene rischiare tutto, puntando
sulla chiarezza.
6 dicembre 1989