1988 luglio 26 L’inevitabile

1988 luglio 26 – L’inevitabile

Achille Occhetto è andato a Civitavecchia dove i comunisti dello «zoccolo duro» inauguravano un
monumento a Palmiro Togliatti e ha affermato – dopo reiterati impegni di fedeltà all’«insegnamento», al
«metodo» e ai «grandi meriti» del padre fondatore – che «egli fu inevitabilmente corresponsabile di
scelte di atti dell’epoca staliniana, di un’epoca cioè piena di ombre».
Nonostante sia al primo segretario del Pci a non aver fatto la Resistenza e a non venire dalla vecchia
guardia del comunismo di guerra, Occhetto ha usato un linguaggio che è un piccolo capolavoro di
prudenza da apparato. I delitti sono «ombre», le complicità «scelte», la responsabilità «inevitabile»,
come dire che i pur riconosciuti «limiti» di Togliatti furono figli della storia non del politico. Tant’è
vero, aggiunge Occhetto per dare una calmata alle lezioni spesso impartite dai socialisti, che «il Psi di
Togliatti e dalla parte dell’Urss». Mal comune, mezzo gaudio.
In sostanza, nulla di storico, nessuno strappo da consegnare agli annali: molto più realisticamente, un
passettino in avanti – questo sì oramai inevitabile – che trova i comunisti sempre impacciati quando si
tratta di aggiornare non tanto i programmi del partito quanto la sua natura. Fatte le debite proporzioni,
appare molto più dinamico nella rielaborazione lo stesso Gorbaciov che sta rifacendo dalla A alla Z i
libri di storia destinati alle scuole dei ragazzi sovietici e che, nel ripudiare senza pausa tutte le parole
d’ordine dello stalinismo, ha detto ai suoi operatori ideologici e culturali: «Dobbiamo liberarci una
volta per sempre da una concezione del socialismo come società livellatrice, che nega la personalità
dell’uomo e si appiattisce su valori minimi: minimo di beni materiali, minimo di giustizia, minimo di
democrazia».
Fanno storia questi giudizi, non ancora le timorate ammissioni di Occhetto sulle «inevitabili scelte» di
Togliatti. Il segretario del Pci non ha «abbattuto» nessun mito né lo ha «sconfessato», come
suggeriscono i titoli di Repubblica e del Corriere; semmai anche questo spettacolare approccio al
travaglio dei comunisti conferma che continuano a prevalere l’ambiguità sulla riforma, il dettaglio
sull’analisi, il trasformismo sul cambiamento. Tuttora in mezzo al guado della sua identità, il Pci
avverte con grande chiarezza il bisogno di essere «partito nuovo» ma non trova la forza politica di
definire questa novità, di rifare tra i comunisti ciò che Craxi fece tra i socialisti, sgomberando il campo
da tutto il vecchio reliquario della sinistra.
Mentre a Civitavecchia Occhetto si occupava con cautela dei «limiti» di Togliatti, a Bologna il ministro
degli esteri del Pci Giorgio Napolitano chiedeva la riabilitazione di Dubcek definendo la primavera di
Praga «una esperienza viva e valida» per l’intera sinistra. In altra sede, il leader dei deputati comunisti
Zangheri chiedeva la riforma delle autonomie locali contro… «le restrizioni di stampo centralistico».
In ordine sparso, modellandosi sulle incalzanti sfide della democrazia, il Pci liquida errori, tabù, ritardi,
diversità. Ma se intende essere il «partito nuovo» che già promette, un bel giorno dovrà pur mettere per
iscritto in un congresso che il termine non si legge sotto
— 1988