1980 Olimpiade di Mosca. Intervista a Mennea, Vittori e Pollio

1980 Olimpiadi Mosca [Intervista a Mennea, Vittori e Pollio]

Dall’inviato
MOSCA — Vado al villaggio contento come una pasqua. « Tovarisch » Popov, il compagno
dell’organizzazione, ripete alle ore 13 di ogni santo giorno che questa è l’olimpiade delle sette
bellezze, altro che Carter, con quel fratellaccio che si ritrova. Fuori è arrivato un sole da cuocerti il
cranio, di notte Mosca dorme a 10 gradi di temperatura, di giorno cammina a 25.

I fotografi italiani sono cicale impazzite. Mettono assieme Damilano, Mennea, Simeoni, e li

consegnano ai posteri mentre stringono al petto tutto l’oro della nostra atletica.

Mica è cosa da ridere catturarli e fotografarli. E’ al contrario una delle operazioni più complicate

del mondo perché a metà strada tra i flash e gli atleti ci stanno gli sponsor.

Un fotografo di Milano le ha tentate tutte per ottenere da Mennea & Simeoni il privilegio di
eternarli insieme sulla Piazza Rossa. Niente da fare, i due hanno un contratto con la « Ellesse »,
ragion per cui l’esclusiva delle foto davanti al mausoleo di Lenin sono della casa di abbigliamento
sportivo.

La cosa si complica perché da Torino telefona Luca di Montezemolo che vuole i due in Piazza
Rossa ma con la tuta della Iveco, braccio sportivo Fiat, cui appartengono sia Sara che Pietro. Se lo
sa Breznev, confisca i rullini per oltraggio capitalistico al sagrato del Cremlino.

Chi non ha di questi problemi sono i gemelli Damilano, tanto identici che, per farsi distinguere
van no in giro uno con la bar ha rasata, l’altro lunga. Sono di un paesino del cuneese, ma è stato
scritto che si allenerebbero a marciare nello smog di Torino. « No, no, — ride piano Maurizio,
quello dell’oro — noi stiamo in provincia, dove l’aria “l’é buna” ».

C’è un pizzico di S. Francesco e di ascetico in questi marciatori, nati dalla stessa placenta con
dieci minuti di differenza l’uno dall’altro. In mezzo alla baraonda di un villaggio interrazziale, hanno
una aria poco cosmopolita, quasi smarrita, dialettale. Non è la retorica di campagna che li fa tali;
sono fatti così proprio per vocazione di anti-divi.

Patrizio Oliva è incantato anche da Sara Simeoni: « Chilla è una vera siggnora! » — dice
ammirato il pugile napoletano — « Ha vinto l’oro e nun lo fa capì. Sempre ‘a stessa, mai boriosa ».
Incrocio Mennea e rammento alcune sue frasi che hanno gettato lo sconcerto anche tra chi gli è

amico. Ha detto:

« Alla corsa sui 200 darei questo voto: 110 e lode ».
« Un personaggio come Mennea non poteva mancare a Mosca ».
« Gli americani? Ci ho preso più gusto senza di loro ».
« Difficile, quasi impossibile, che nasca un altro Mennea ».
Il tutto con tono febbrile, concitato, non di chi ha smesso di correre 200 metri d’oro ma di chi
insegue non si sa bene quale lepre della mente. Fra l’altro, sempre parlando in terza persona, come
un Papa. Mennea è… Mennea non può… Mennea pensa… ».

Gliene chiedo ragione, anche perché mi pare più rilassato del solito. E lui: « Ho sempre parlato

in terza persona, è da 12 anni che lo faccio. Si sono stupiti quelli che non mi conoscono bene ».

— Ma c’è qualcuno che ti conosce davvero?
« Questo no, devo dirlo: Mennea non lo conosce ancora nessuno ».
— Non dipenderà da te se nessuno ce l’ha fatta?
« Mah, certo che in 12 anni avreste dovuto capire Mennea ».
— E dagli con la terza persona: non userai questo linguaggio indiretto perché senti da una parte

la persona, dall’altra l’atleta?

« Può darsi, non so ».
— L’oro ti ha esaltato ma, insieme, ho l’impressione che ti pesi.
« Forse perché l’ho pagato salato. Nemmeno se mi ricoprissero d’oro, rifarei gli stessi sacrifici ».
Lo dico a Carlo Vittori, il professore di Mennea, l’altra metà della « coppia perfezionista ».
Vittori fuma, sorride con invisibile piega della bocca, vorrebbe dire molte cose, ma i veri sodalizi
sono fatti anche di scomodi silenzi. « Io —dice — dal 1963 non faccio ferie, lavoro 360 giorni
all’anno, e nessuno mi ha mai pagato le ferie. Io non mi pento di nulla ».

— Professore, Sara Simeoni sostiene che Erminio Azzaro ha più del 50 per cento di merito nei

suoi exploit: qual è la sua percentuale nei confronti di Mennea?

« Io ho soltanto impedito che si rovinasse », risponde in lapide Vittori. C’è di tutto all’olimpiade,
nevrosi e De Amicis, personaggi sempre sul set e gente che esce dal sottosuolo, più silenziosa delle
talpe. « Sono disoccupato e spero che questo oro mi aiuti a trovare un lavoro », è il primo desiderio
di un ragazzo « minimosca », i 48 chili di Claudio Pollio, che ha battuto russi e coreani nella lotta
libera, uno degli sport più faticosi.

E’ cosi piccino che sembra impossibile possa… lottare con qualcuno. Quando fu bocciato alla
seconda professionale, provò a farsi arruolare tra i pompieri di Secondigliano, ma lo scartarono: era
alto un metro e sessanta, cinque centimetri in meno del minimo richiesto.

Napoletano come Oliva, Pollio ha negli occhi secoli di furbizia e di capacità di soffrire. Uno

scugnizzo a Mosca, ‘na creatura si direbbe, che fa perfino tenerezza.

« Mio padre era portuale — racconta — e con cinque figli è stata una tragedia fare sport.
Dovevamo fare i salti mortali in famiglia. Io ho cominciato con la ginnastica artistica, e sono
passato subito alla lotta perché l’iscrizione di un anno costava soltanto quattro-cinquemila lire ».

Non ha mai chiuso occhio la notte precedente all’ultima sfida: al Coni il suo oro è costato in tutto
una diaria di 10 mila lire per il tempo della preparazione. Quel faccino olivastro, di una dolcezza
infinitamente napoletana, è una cosa preziosa.

Una diaria vale a volte dieci sponsor.