1980 Olimpiade di Mosca. Alla rincorsa di Sukhò

1980 Olimpiadi Mosca

Alla rincorsa di Sukhò

Dall’inviato
MOSCA — Speravo in Giacomini, ho trovato Moser! II Moser del Volga perché l’artigliere
dell’Armata Rossa che ha vinto l’oro del ciclismo su strada ha fatto dell’asfalto il suo tappeto
privato, con la stessa aggressiva potenza del Moser delle prime corse da professionista o di alcune
formidabili classiche.

Altri preferiscono chiamarlo il Merckx russo o il Merckx che viene dal freddo: in ogni caso
un’impressionante, unanime stima per Sergei Sukhoruchenkov, « Sukhò » per gli amici e anche per
i giornali che, non ci fosse la provvidenziale abbreviazione, quasi mai riuscirebbero a dedicargli un
bel titolone. Per ragioni di spazio, bene inteso. Perché, per tutto il resto, questo ventiquattrenne che
viene da un villaggio del Volga è stato uno spettacolo.

Uno spettacolo che sarebbe interessante mettere alla prova in un Giro d’Italia, anche se è poco
probabile che Vincenzo Torriani riesca a ingaggiarlo. Militare di etichetta, ciclista a tempo pieno,
Sukhò è formalmente dilettante, e tale potrebbe restare tutta la vita, come si usa all’Est o nei Paesi
che all’Est si ispirano, vedi Cuba, che fa di un pugile come Teofilo Stevénson un razziatore di
medaglie olimpiche, mai un prof.

L’anno scorso Sukhò aveva vinto tutto, Tour dell’Avvenire, Giro della Pace, Giro delle Regioni
in Italia. Era stato meritatamente nominato « ciclista dell’anno ». Ieri ha fatto ancor meglio, dopo
un’annata durante la quale tutto era stato sacrificato a questo appuntamento e su un percorso sul
quale si è allenato centinaia di volte, anche sulla scia di un’auto.

Alla partenza lo avevo visto concentratissimo, la testa bionda appoggiata sul manubrio, lo
sguardo per qualche minuto fisso sul tubolare, una concentrazione probabilmente di tipo-yoga.
Dopo 15 chilometri è partito, le spalle larghe da nuotatore e la pedalata talmente ritmica, poderosa,
da farlo sembrare in sella perfino più slanciato di quanto non sia a terra. Un metro e 70 di statura, su
per giù, se ho ben calcolato quando ci siamo trovati all’arrivo.

Sukhò è partito e il campione italiano Petito, longilineo di Civitavecchia con la pelle di un
algerino, è stato pronto a cogliere l’attimo. Giacomini era in zona, ma la risposta di Petito a Sukhò
lo aveva tranquillizzato: perdiana, mancavano 174 chilometri all’arrivo, mica uno!

Invece, era proprio cominciato lì, precocemente, lo sprint verso l’oro. Su un circuito bellissimo
ma disegnato da un matto, con 85 curve in 14 chilometri, tutta collina percorsa a ghirigoro, Petito
non ha retto, staccandosi quasi subito. Sotto il sole, con un vento di traverso, Lang (il migliore dei
polacchi) e Barinov (il numero due dell’Urss) hanno agganciato Sukhò, e buonanotte. Il trio non l’ha
più visto nessuno.

L’unico a provarci è stato Giacomini, uscendo dal gruppo con lo svizzero Claus e il polacco
Wojtas. Diventava una corsa in tre pezzi: davanti un jet, in mezzo Giacomini, poi un gruppone
cicloturistico. Giacomini (mondiale nel ’79) aveva in Claus un buon compagno (mondiale nel ’78),
ma il polacco non collaborava, avendo Lang davanti da proteggere. E poi, diciamo la verità, Sukhò
era imprendibile, la corsa era noiosa perché troppo sua.

« O lo prendi subito o non lo prendi più », ammetteva Giacomini alla fine. Un Giacomini
abbastanza distante dal suo optimum, espresso l’anno scorso. « Io e gli altri due – ha spiegato il
nostro campione – siamo rimasti lì in mezzo a bagnomaria, con alle spalle un gruppo stranamente
passivo. E poi non erano le mie solite gambe, anche se mi sentivo bene ».

A bagnomaria non poteva durare; gambe per andarsene da solo non aveva; il distacco da Sukhò

aumentava di un minuto al giro! E si è arreso anche lui.

A poco più di 30 chilometri dall’arrivo, il capolavoro di Sukhò che, temendo il velocista Lang,

sderenava sia lui che Barinov e andava al traguardo da solo, con una progressione da manuale.

L’argento di Lang e il bronzo di Barinov arrivavano 3 minuti dopo: il gruppetto dei passabili 9!
Minetti si era già ritirato quattro giri prima, Cattaneo (il pupillo di Gianni Motta) rimpiangeva la
pioggia di Lombardia, Petito sognava quella ruota troppo presto perduta, Giacomini pensava oramai
« a un fine 1980 tranquillo. — come ha detto — Professionista diventerò soltanto nel 1981 ».

Oggi ritornerà a casa, a Cimadolmo, un po’ raffreddato e molto deluso. Se anche la respirazione
gli ha dato qualche noia, non tira fuori scuse. Ha il vantaggio, questo sì, di essere stato battuto dal
migliore, l’entusiasmante Sukhò del Volga.

Per il ciclismo italiano, Mosca è pochissima cosa.