1998 dicembre 31 Il 1998 del Veneto

1998 dicembre 31 – Il 1998 del Veneto: un anno «doroteo»
«Il venetismo è una potente realtà della fantasia, che non dà noie al Parlamento». Lo sosteneva più di
quarant’anni fa Guido Piovene, stupendo scrittore vicentino, e sembra la didascalia giusta per il 1998,
l’anno rococ del Veneto, decorativo e capriccioso, ornamentale e affabulatorio. Nemmeno un anno di
transizione, piuttosto un anno di surplace: Veneto fermo per aspettare se stesso, visto che protesta e
voglia di riforme sono precipitate assieme nel frullatore agnostico. Così il Veneto non dà più noie al
Parlamento, non è più un «caso» nazionale: dopo aver ringhiato come un lupo pedemontano, ora fa le
fusa come un soriano salottiero. In qualche modo, torna a essere doroteo, si fa gli affari suoi relegando
la politica al ruolo di nicchia per addetti. Rispunta il lobbismo di partito, ristagna l’autonomia di
governo. Perci il Veneto vota sempre meno, lasciando che un sindaco o un presidente di Provincia sia
scelto anche da un misero venti-venticinque per cento dei cittadini. Ha smesso di credere che scegliere
significhi contare qualcosa, meno che meno cambiare. Se a Vicenza si presentano diciannove simboli,
non pensa più alla ricchezza della democrazia, ma alla sua malattia infantile. Questo rigetto di massa è
un male ma non una tragedia: lo sarebbe se l’astensionismo dilagasse anche nella società. Il che non è,
come dimostrano le cifre del volontariato, laico e cattolico, anzi più laico che cattolico. «Questo»
Veneto resiste imperterrito a ogni disillusione, perché non ha mai delegato un bel nulla. Spesso mi
vergogno della mia vasta ignoranza, come di recente, dopo aver letto Ogni uomo semplice, un libro di
storie di volontari veneti raccontate da Giovanni Stefani, giornalista della rai, per l’editore Il Prato. Uno
come me vede, ad esempio, sfrecciare un’ambulanza della Croce Verde di Padova e nemmeno
lontanamente immagina ci che rappresenta: milletrecentocinquanta persone impegnate, senza il becco
di una lira, a garantire l’assistenza ventiquattr’ore su ventiquattro tutti i santi giorni, Natale, Pasqua e
Capodanno compresi, mentre ottocento giovani tra i diciotto e i ventisei anni sono in lista d’attesa per
mettersi a disposizione – ottocento, dico –, e non fanno notizia nemmeno quanto gli squatter. C’è un
Veneto che nemmeno immaginiamo, infinitamente più vero di una serie di classificazioni da dementi. È
soltanto la politica che ha stancato i veneti e, forse, sono proprio i veneti ad aver snervato la loro
politica. Il rococò gioca anche con gli specchi, un po’ illusionista. Di certo, nessun leader nostrano
conclude l’anno in crescendo; da Galan a Cacciari a Comencini, tutti hanno via via perso smalto.
Machiavelli invocava ceti dirigenti fatti di leoni e di volpi; oggi il Veneto abbonda di anitre zoppe. Gli
sberloni in Regione non saranno politicamente corretti, ma potrebbero anche manifestare un impegno
sanguigno, lo scontro ruspante di progetti. Invece no, segnalano mediocremente una gestione
«provvisoria», poco previdente come il Bilancio, per nulla mediata dal buon senso, governata per di più
in extremis, in zona Cesarini come si direbbe nel calcio. Una volta, poi, erano le opposizioni a cercare
la caciara in aula; non si era ancora vista una maggioranza alzare cartelli buoni al massimo per i
disoccupati di Napoli. A onor del vero, io quei tre li capisco anche. Galan non ama l’istituzione che
presiede: da sicuro federalista, vorrebbe una Regione nemmeno parente di questa, assai più autonoma,
con più responsabilità, più poteri e più lire. Ha speso più energie sulla «specialità» negata che
sull’ordinarietà da amministrare. Nemmeno Cacciari ama il ruolo che riveste, avendo rifatto il sindaco
di Venezia di contraggenio, e si vede. Lui, il più anarchico della sinistra, anzi renitente alla categoria
stessa di «sinistra», sta lì per disciplina di schieramento quale garante di quella sinistra che,
ampiamente ricambiata dal sindaco, non lo ama. Questa mai superata contraddizione ha minato la sua
idea di Nordest, trasversale a giorni alterni, umorale a immagine e somiglianza del leader che, per
paradosso ulteriore, resta il più visibile da almeno cinque anni. Galan e Cacciari si erano spesi molto,
quasi tutto, sulle riforme federaliste, il cui fallimento totale ha presentato il conto nel 1998. Più che il
paventato ribellismo, un inusitato disamore di massa, e quale dei due vada verso il meglio – direbbe

Socrate – è oscuro a tutti fuorché a Dio. C’è chi sta anche peggio. Non l’istituzione (vedi Galan) o il
ruolo (vedi Cacciari): Comencini dovrà reinventarsi da zero addirittura il partito, una delle due Leghe
uscite a pezzi dal harakiri del secessionismo. Oggi, via da Bossi, Comencini si trova inerzialmente più
vicino ora a Galan ora a Cacciari, ma sarà costretto a marcare al massimo la distanza da entrambi per
mera sopravvivenza elettorale. Di sicuro non sarà più lo stesso Veneto: l’unanimismo leghista va per
sempre in archivio con Gentilini. Se la Lega Nord, in Veneto come in Friuli-Venezia Giulia, garantiva
fino a ieri un faticoso ma originale tripolarismo, la «LegacontroLiga» sarà d’ora in poi esposta
all’attrazione fatale destra-sinistra: il bipolarismo conta molto sulla separazione Lega-Liga, è la sua
grande occasione. Difficile fare previsioni. Di sicuro, il labirinto di Comencini, la fuga in avanti di
Cacciari con Centocittà, lo stesso forfait di Carraro, hanno indebolito fino a stremarla l’idea di un
movimento territoriale. Sembrano lontane secoli le passioni autonomiste sui modelli catalano, bavarese
o scozzese, anche se non c’è gruppo consiliare veneto, da Forza Italia al pds, che non abbia pronta nel
cassetto una sua proposta di autonomia regionale. Il guaio grosso è questo: che, a una politica mai tanto
opaca come ora, corrispondono problemi forza sette. Le imprese qui meriterebbero almeno la stessa
flessibilità dell’Olanda che pur ha salvato lo Stato sociale. E il sistema Veneto, che prende a simbolo
cinquanta milioni di auto all’anno stuprate sulla tangenziale di Mestre, non vede spuntare il cantiere di
una sola infrastruttura. A chi tocca far emergere questo «sommerso»? Dicono che il Nordest è
«infelice». Al fumetto si può obiettare che un recente Rapporto elaborato con tutti i crismi in Germania
ha posto al vertice della classifica mondiale della felicità il Bangladesh, con gli americani solo al
quarantaseiesimo e i tedeschi al quarantaduesimo posto. Intervistato dall’«Espresso», lo storico Ernst
Nolte ha così commentato: «Che benessere non voglia dire felicità è una vecchia verità». Ogni volta
che la politica si è occupata della felicità degli uomini, sono stati oltretutto dolori epocali. Grazie, ma ci
pensiamo noi: a noi basterebbe ridurre, dopo il costo del denaro, il costo dello Stato. E non partire dal
Nordest per l’Europa in coda, a passo d’uomo, con il pil a rimorchio per altri vent’anni. Il Nordest non
chiede poi molto, è di bocca buona.
31 dicembre 1998