1984 luglio 28 Ecco l’Olimpiade

1984 luglio 07 – Ecco l’Olimpiade
Tre miliardi di telespettatori per il più grande spettacolo sportivo del mondo
Da oggi al 12 agosto a Los Angeles atleti di 139 Paesi. Manca solo l’Est
Los Angeles, Nostra Signora la Regina degli Angeli della Porziuncola come la battezzarono gli
spagnoli, ospita da oggi i giochi della ventitreesima Olimpiade dei tempi moderni. Un’area urbana di
12 milioni di persone, lunga quanto la distanza che separa Milano da Torino e che ha fatto parlare di
«potenziale dissoluzione della città», è il luogo adatto al più grande videogame del mondo. Tre miliardi
di telespettatori.
Quattro anni fa a Mosca fu la prima Olimpiade comunista; da oggi avremo la prima Olimpiade
dell’«american way of life », simbolo del modo di vivere americano, l’America del dopoguerra, quella
che ha tanto influenzato anche la cultura e le abitudini dell’uomo europeo. Visto che doveva essere
un’Olimpiade capitalistica, la scelta di Los Angeles è gemellare.
L’Olimpiade è sempre più ricca e Los Angeles ha (25 milioni) il maggior reddito pro-capite degli Stati
Uniti. L’Olimpiade è stata organizzata da privati e qui si respira la sublimazione dell’iniziativa
personale. L’Olimpiade vagheggia il mito della bellezza e la California aspira da sempre alla leadership
dei paradisi profani. L’Olimpiade è spettacolo e si colloca a due passi da Hollywood, non molto
distante da Disneyland. Nonostante smog e traffico, questa città ha il fisico del ruolo. Se l’Olimpiade
moderna è un’esagerazione, aveva bisogno di una sede esagerata. Proprio perché Los Angeles non ha
più angeli, ospita benissimo tutte le contraddizioni dello sport planetario, con un tocco che più
americano di così non si può.
Questa è un’Olimpiade reaganiana, ottimista, che coincide con il record del dollaro, con la crescita del
prodotto nazionale lordo del 10 per cento, con l’aumento della propensione a spendere, con l’aumento
della propensione a spendere, con il calo dell’inflazione al 4 per cento e della disoccupazione al 7 per
cento di fine giugno. Una ripresa le cui dimensioni hanno sconvolto persino le tradizionali «leggi»
dell’economia.
Su tale sfondo, l’analisi moralistica dei costi e dei ricavi, del business e degli sponsor, dei diritti
televisivi e della commercializzazione diventa esercizio decrepito, fuori della storia, figlio di una
nostalgia che ignora lo sviluppo. Per un americano che si rispetti conta soltanto il denaro investito, non
quello speso, e in ogni caso non è il denaro a corrompere l’Olimpiade semmai è l’Olimpiade moderna a
vendersi con eccessiva voluttà. Se il denaro non odora, il dollaro addirittura profuma.
Il meglio dell’Olimpiade resta l’atleta, quel fantastico congegno chiamato uomo che non è ancora dato
sapere dove porrà il limite della prestazione fisica. L’atleta che fa progresso si serve della scienza non
dei trucchi, della medicina, non del doping, della fatica non della slealtà.
Soltanto questo tipo d’atleta assume forza d’emblema, un’educazione che con lui filtra dallo sport alla
società affinando soprattutto nei giovani un provvidenziale sesto senso nel fiutare le mille doppiezze
del quotidiano, trasparenze untuose, precari successi, potenze friabili, patrimoni incauti, reputazioni
detassate. L’Olimpiade aggrega anni di lavoro ai limiti dello stress, una tenacia umana che non può
allevare all’indifferenza.

tuttavia

irreale, meno sanguigna e

In nessun senso l’Olimpiade è indifferente. Poiché allarga sempre più il messaggio, risulta sempre più
sfruttabile, come dimostra il boicottaggio incrociato di Usa e Urss, che hanno già ratificato
un’interruzione di otto anni nella loro confrontation olimpica. Nel 1980 a Mosca mancarono 57 Paesi
occidentali, oggi a Los Angeles non sfileranno 14 bandiere marxiste.
Non andando a Mosca, gli americani vollero isolare i sovietici sull’invasione dell’Afganistan; non
iscrivendosi a Los Angeles, l’Urss ha fatto sapere agli Usa che l’installazione dei missili Nato in
Europa aveva creato una «situazione nuova».
La diplomazia non dispone di strumento più allusivo di un’Olimpiade la quale, proprio per non essere
politica, si presta benissimo a fare da surrogato, secondo una procedura ampiamente utilizzata anche
nel passato. Con la sola differenza che più piccolo si fa il mondo più grande si fa l’Olimpiade, creatura
esposta alla Realpolitik di qualcosa come 160 Paesi.
Di fronte ai cronici attentati, si è fatto strada negli ultimi anni un movimento d’opinione che auspica il
ritorno della Megaolimpiade d’oggi a misure più armoniche e al luogo di nascita, la Grecia, quale
garanzia di extra-territorialità, un tentativo di neutralizzare nel nome del mito le tensioni della storia.
Anch’io ho riflettuto su questa buona idea, ma non sono più tanto sicuro di condividerla perché
avremmo forse un’Olimpiade sotto vuoto spinto, periferica alla realtà, un po’ Svizzera e un po’
Finlandia, certamente più serena e
tormentata, quindi
nell’impossibilità di dare scandalo. Perduta l’universalità della partecipazione, l’Olimpiade è oggi
universale nel monito sui rischi della guerra e dei cupi niet. Francamente non so se sia preferibile la
neutralità di un’Olimpiade-colomba o un’Olimpiade con addosso le unghiate dei falchi.
La presenza della Cina e della Romania hanno un significato enorme, oltre a dire che le risorse del
dialogo internazionale sono infinite come le vie del Signore. Se anche è stata più volte decretata la
morte presunta di Zeus, forse Zeus non è morto o perlomeno resuscita ogni volta per auto levitazione
della speranza. L’Olimpiade non muore perché non muore la pace. pace può essere ferita o rimossa, ma
è l’ultimo sole del mondo e l’Olimpiade sta lì a ricordarcelo con le sue bandiere ammainate, con i suoi
pretesti di guerra fredda.
A guardar meglio, la sua grandezza è legata ai suoi peccati e alle sue lacerazioni. Se avesse potuto
scolpirla, Michelangelo avrebbe scelto la figura del «Prigione legato», un tutt’uno con il blocco di
marmo dal quale la statura non si libera nonostante il disperato vigore. Forse il trucco più sofisticato
dell’Olimpiade è di salvarsi sempre e nonostante tutto o con il gesto dell’atleta o con la parabola
esistenziale o con entrambi.
Ci sono sempre due mondi, uno moribondo e l’altro neonato, dice il personaggio di Alberto Moravia in
«1934». Da oggi anche la ventitreesima Olimpiade tenterà di uccidere il pessimismo del primo e di
alimentare la suggestione del secondo.

luglio 1984