1984 agosto 13 Chiuse le Olimpiadi americane

1984 agosto 13 – Chiuse le Olimpiadi americane
Los Angeles ha spento la fiaccola dopo 14 frenetici giorni di splendido sport. Appuntamento tra
quattro anni a Seul
L’Olimpiade ha spento la fiaccola, lo spettacolo a stelle e strisce è finito dopo 1300 ore di produzione
televisiva, 500 delle quali utilizzate in Europa. Mai evento mondiale è stato tanto coincidente con la sua
stessa immagine, anche se 273 milioni di sovietici non lo sanno: in un Paese dove non esiste
informazione, la Nomenklatura del Cremlino trova normalissimo far morire i suoi leaders a scoppio
ritardato, abbattere i jumbo due giorni dopo o fingere che a Los Angeles si stesse svolgendo una partita
a briscola tra membri del Ku-Klux-Klan.
Non è stata un’Olimpiade qualunque, ma l’Olimpiade americana, puntuale con una forte restaurazione
di sentimento nazionale al quale il boicottaggio comunista ha dato accento. Carl Lewis, negro
dell’Alabama, è l’atleta-bandiera di un America che ha ritrovato in pieno il gusto di vincere. E di
vincere con quell’aria provvidenziale, da «arrivano i nostri», che da lungo tempo sembrava smarrita
nell’insuccesso di Cuba, nel disastro del Vietnam, negli infortuni in Iran, nelle carneficine in Libano. A
Los Angeles gli americani erano felici di esserlo e si trattava di un’emozione che usava l’exploit
sportivo. Prima gli States poi lo sport, con un’ingenuità così sfacciata che finiva con il dare al resto del
mondo un profilo più basso.
In un certo senso è stata un’Olimpiade faziosa, perché l’America 1984 è più interessata a se stessa che
ai risultati tecnici. Dentro le sue medaglie ha posto la congiuntura, il superdollaro, la grande corsa ai
posti di lavoro, il pullulare di nuove imprese, la bassa inflazione. La vecchia ricetta economica stop and
go, appena si annusa recessione molla i freni e riparti a trazione anteriore, ha trovato nell’Olimpiade un
simbolo di facile presa, trasferibile alle masse senza bisogno di sofisticate manipolazioni. E
l’Olimpiade della ripresa, della locomotiva dell’Occidente, della nuova strategia sul Pacifico, di un
Paese che ha fatto parlare anche in Italia di «riscoperta dell’America» o di «voglia d’America».
Ci fu, particolarmente a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, un momento in cui l’America era vista come un
«nemico», l’incarnazione diabolica del capitalismo multinazionale. Oggi l’approccio è del tutto
cambiato per la straordinaria capacità che gli Stati Uniti hanno di sanguinare e cicatrizzarsi di volta in
volta senza perdere per strada il grande valore della libertà, forte nella Rivoluzione americana forse
ancor più che in quella francese.
L’Olimpiade di Los Angeles non è stato un avvenimento trascurabile né per Reagan né per noi perché
ha dato corpo all’energia di un Paese, al suo ottimismo e ai suoi tumulti. Anche nelle sue
contraddizioni, l’America non è mai chiusa, grigia, opaca, inadatta ad essere utilizzata quale vettore di
società industrializzata. Poiché s’interroga, si spoglia, si divide e si ripristina sempre esibendosi in
pubblico come esige una democrazia fondata sulla stampa più indipendente del mondo, l’America è un
mito o un sogno che non tramonta nemmeno durante l’eclissi dei Watergate o di Saigon.
Organizzata come un business da una società privata, attiva per milioni di dollari, tele consegnata a
quasi tre miliardi di spettatori, l’Olimpiade di Los Angeles ha macinato nell’ingranaggio lo stesso
boicottaggio, dando attraverso i suoi fantastici velocisti un’immagine mai tanto negra e interrazziale. In
fondo , anche se non l’ha detto, l’America lo ha pensato: «Thank you Cernenko».
agosto 1984